Il movimento del corpo nel culto cristiano

Il movimento del corpo nell’adorazione cristiana costituisce una libera espressione individuale, che non va soppressa né forzata artificialmente. Sui modi e le misure di ciò sono opportuni dei chiarimenti.

 

UNA QUESTIONE DI EQUILIBRIO ETICO 

È noto come in certe nazioni i credenti usino particolari forme di movimento fisico mentre offrono il culto al Signore. Chiaramente, si tratta di una manifestazione della propria indole familiare o culturale che, in linea di massima, va rispettata o tollerata e non criticata né soffocata.

D’altra parte, laddove questi credenti si trasferiscono in altre zone del mondo e quindi in altre comunità cristiane, devono amorevolmente prendere atto della cultura diversa in cui si trovano, considerando quanto potrebbe recare problematicità nell’adorazione comunitaria (Col. 3:16-17). 

I rivestimenti culturali locali, per quanto spontanei, vanno sottoposti ai più alti e universali valori della fede biblica; questa chiama al decoro e all’ordine spirituale nel culto, evitando così che qualsiasi manifestazione personale scada da un sano entusiasmo finendo nella dissacrazione e nel caos (I Cor. 14:40).

 

UNA QUESTIONE DI PRECISIONE DOTTRINALE

Ciò che è errato non è tanto che alcuni credenti vogliano produrre determinati movimenti fisici alla presenza di Dio, quanto il fatto che si ponga tale pratica come un comando dottrinale per la Chiesa.

Ad esempio, le presunte basi bibliche per la “danza cristiana” in realtà riguardano libere espressioni ebraiche di devozione personale sotto l’antico Patto (Eso. 15:20-21; I Cron. 15:29). 

Siamo comunque dinanzi a qualcosa che non concerne il culto cristiano (Sal. 30:11; 149:3).

Infatti, il Nuovo Testamento, base di ogni dottrina della Chiesa e d’ogni esperienza cristiana, pur esortando i credenti a rallegrarsi nel Signore, non insegna la danza a scopo di culto, né cita esempi di credenti che per spontanea iniziativa abbiano ballato per celebrare il Signore (Efes. 5:19-20).

 

UNA QUESTIONE DI PROFONDITÀ SPIRITUALE

Diversa è la questione quando una gestualità, una danza o altro vengono superficialmente “trasportate” nel culto cristiano dalle vecchie credenze pagane o da un rituale occulto. 

Già l’Antico Testamento avvisava su quanto poteva pure condurre ad eccitare i sensi o ad esaltare gli idoli (Eso. 32:19; I Re 18:26; Mar. 6:22). 

Esso mostra che la danza, a sfondo religioso o profano, implicava una esternazione di gioia per celebrare tanto Dio che gli uomini (I Sam. 18:6; Ger. 31:4, 13).

Bisogna poi considerare come nella grazia, con la rigenerazione spirituale del credente, si stabilisce direttamente la comunione tra lo spirito dell’uomo e lo Spirito Santo (Rom. 8:15-16).

Così, il culto che noi offriamo a Dio è innanzitutto un moto spirituale (Giov. 4: 24; Fil. 3:3).

In effetti, certe manifestazioni fisiche non costituiscono la diretta essenza dell’adorazione, ma sono riflessi secondari causati dalle sensazioni che proviamo alla presenza di Dio (Isa. 26:9).

Risulta dunque almeno inappropriato parlare di “Danza nello spirito”, “Cadere nello spirito”, ecc.

Vi è anche il rischio di agire artificialmente per imitazione, per moda o addirittura su pressione emotiva, ritenendo di provocare così un risveglio delle anime…

Con simili motivazioni, piuttosto che accompagnare la sacralità dell’adorazione, l’espressione corporale può esaltare la sensualità umana, avviando euforiche degenerazioni che contrastano l’Evangelo. 

Ne trattiamo di seguito una (non direttamente collegata alla danza), a titolo esemplificativo.

NOTA: “Slain in the spirit” è un’espressione sorta nel moderno movimento Pentecostale e in quello Carismatico, tradotta in vari modi: “Svenire nello spirito”, “cadere sotto potenza”.

Secondo alcuni, quando ciò avviene si verrebbe gettati a terra dal tocco di qualcuno che si suppone essere un “trasmettitore” del potere divino.

I sostenitori del “Cadere nello spirito” si sono richiamati a manifestazioni verificatesi nei risvegli americani e inglesi del 18° secolo, citando le biografie di Wesley, Whitfield, Finney.

Si deve obiettare che non basta rifarsi a una casistica per convalidare dottrine e metodi: prima di essere accettata, una pratica deve essere realmente biblica (Giov: 17:17; I Cor. 4:6). 

Inoltre, esaminando le suddette biografie, risulta chiaramente che il “cadere” alla presenza di Dio non fu provocato dal contatto umano, ma è stata la spontanea reazione ad un profondo sentimento di contrizione per i propri peccati.

Quelle persone si sono inginocchiate o messe “faccia a terra”, come in altri casi riportati dalla Bibbia, prostrandosi coscientemente in segno di riverenza verso il Signore e non svenendo all’indietro prive di sensi (Gen. 17:3; Luca 17:15-16; I Cor. 14:24-25).

Il “cadere” dei discepoli fu un atto istintivo di sottomissione, motivato dalla visione di Gesù trasfigurato (Mat. 17:5-6). 

Lo stesso avvenne per Giovanni, nell’isola di Patmos (Apoc. 1:17).

La medesima reazione ebbero i profeti Ezechiele e Daniele quando videro la Gloria divina (Ezec. 1:28; 3:23; 44:4; Dan. 10:8-9).

Tutto ciò esprime la fragilità della natura umana, scossa e stupita dinanzi alla maestà del Signore (Giov. 18:6; Atti 9:3-4). 

È dunque chiaro che il proposito dei sostenitori del “Cadere nello spirito” sia stato non quello di trarre un insegnamento dalle Scritture, ma di immettere in esse questa così detta “esperienza” con delle forzature che non glorificano Dio né onorano il tempio dello Spirito Santo.

                                                                                                                                            

Alessandro Cravana

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